Recensione del libro Il Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano

La nostra rubrica dedicata alla letteratura si arricchisce oggi di una recensione “d’eccezione”. Siamo lieti di ospitare nei nostri canali, Lodovica Mairè Rogati, attrice italo-inglese appassionata di libri che per l’occasione si è calata nei panni di una vera e propria “critica letteraria”, recensendo per noi “Il Tempo di Uccidere” di Ennio Flaiano.

Di seguito la recensione del romanzo Premio Strega nel 1947 curata da Lodovica Mairè Rogati.

Recensione
“Il tempo di uccidere”, romanzo scritto da Ennio Flaiano nel 1947, è un romanzo che, seppur ambientato negli anni ‘30 durante la famosa Campagna d’Etiopia, offre moltissimi punti di contatto con l’attualità. Delicato e violento, è un romanzo che suscita un poliedro di emozioni contrastanti tipiche del genere letterario della Tragedia.

“Il tempo di uccidere” narra le vicende di un giovane ufficiale del Regio Esercito impegnato nella spedizione  del Regno d’Italia contro l’Impero d’Etiopia tra il 3 ottobre 1935 ed il 5 maggio 1936, giorno in cui le truppe italiane entrarono nella capitale Addis Abeba.

L’uomo, fannullone e con una moralità non di certo impeccabile, passa le sue giornate sull’altopiano etiopico senza particolari interessi fino a quando, complice un terribile mal di denti, non si spinge alla ricerca di un medico per essere curato. Nel suo viaggio incontrerà una donna, un’indigena con un grande turbante in testa, con la quale passerà del tempo in intimità e che finirà per uccidere a seguito di un grottesco errore. La morte accidentale della donna non lascerà indifferente il protagonista che, preso dallo sconforto e dal rimorso, tornerà al suo campo base sulla costa.

Da questo momento in poi, l’uomo inizierà una peregrinazione introspettiva fatta di frustrazioni e disavventure che lo condurrà fino agli ultimi anni della sua vita.
Tornato sulla costa, l’uomo entra in contatto con un gruppo di indigene che indossano lo stesso turbante della donna con cui si era precedentemente intrattenuto. Sorpreso ed incuriosito dall’abbigliamento particolare, l’uomo chiede ai suoi commilitoni il motivo di quel turbante e ciò che scoprirà sarà l’ennesimo colpo ad una vita già per altro compromessa. Le donne che indossano il turbante non sono altro che persone affette da lebbra; l’accessorio serve infatti a distinguerle dalle persone sane.

A questo punto l’uomo è assalito dal terrore di essere stato contagiato e si rimette in viaggio alla ricerca dell’ennesimo medico a cui chiedere informazioni sulla malattia.
Trovato il medico, si trova nella situazione di non poter dire la verità, pena la denuncia ed un lungo ricovero, così, preso dal demone della paura tenta di sparare al medico, sbagliando però mira.

Inizierà a questo punto l’ennesima fuga verso l’oscuro, destinazione Massaua, il porto da cui salpano le navi verso l’Italia. Il soldato cerca disperatamente un imbarco clandestino ma ha poco denaro e si troverà quindi a derubare un maggiore conosciuto da poco, aumentando di fatto i “reati” commessi e alterando ormai definitivamente i colori della sua anima.

Il furto non andrà a buon fine e questo coinciderà con un’altra fuga, stavolta nel bosco, ove il soldato troverà rifugio presso un piccolo villaggio. Qui fa la conoscenza di un vecchio ascari, Johannes con il quale, dopo un periodo di diffidenza, inizierà un percorso di fiducia. L’ascari si prenderà cura del soldato, medicando le ferite della presunta lebbra e dando modo così all’uomo di intraprendere la direzione della “redenzione”.
Il soldato infatti, decide finalmente di tornare al comando per costituirsi, mettendo fine al suo viaggio fatto di menzogne, paure e delitti. Pronto a ricevere la sua pena, al suo arrivo scoprirà invece che non c’è nessuna denuncia a suo carico e questo impedirà di fatto all’uomo di “scontare” i suoi tormenti attraverso la legge degli uomini. Egli passerà dunque il resto della sua esistenza attanagliato oltre che dal dubbio della lebbra, anche dal tragico “buco nero” lasciato dalle sue colpe non risolte.

Leggendo il libro traspare in maniera molto evidente l’angoscia del protagonista dovuta al non sapere di aver contratto o meno la malattia. Il punto di riflessione maggiore del libro è però quello che per ogni essere umano fare del male significa portarsi dietro un peso che è difficile dimenticare.

Quote
«forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l'esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico»



Commenti